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Venezia, diario di bordo: il viaggio nel segno di Zak

Alfonso Maria Tartarone

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Dalla delusione alla gioia. Il passo è breve? Non per tutti. Chi vi scrive ha trascorso ben diciassette anni prima di far ritorno in laguna. Precisamente al “Penzo”. Era il 2 novembre del 2002. L’epoca del calcio moderno, tanto per capirci. La serie cadetta che gioca di sabato. In orari improbabili, tipo alle ore 20.45. Decidiamo di partire. Con chi, direste voi? Con Zaccaria Tartarone, Zak per gli amici.

Una vita dedicata alla sua Salernitana: dalla promozione del 1965/66 con Tom Rosati in panchina. Altro calcio, appunto. Ma torniamo a noi. La compagine granata, guidata alla presidente da Aniello Aliberti, non attraversa un momento particolarmente felice. Il boemo, Zdenek Zeman, per il secondo anno consecutivo in panchina. Una squadra rivoluzionata (anche troppo) e risultati che tardano ad arrivare. I granata arrancano. Tifosi, appassionati e giornalisti non perdono comunque la speranza. Un lungo viaggio, rigorosamente in auto e con partenza molto prima che il sole sorga, attraversando il Lazio, la Toscana, e la cupa Emilia-Romagna. Immancabili le soste per recuperare energie e proseguire il proprio lavoro tra tv e giornale.

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Un tonificante pranzo a sacco, un buon caffè e si giunge in Veneto nel pomeriggio. E’ il 2 novembre, non il momento migliore (meteorologicamente parlando) per calcare il manto erboso del “Penzo”. Il ritiro dell’accredito, l’immancabile presentazione di rito con i colleghi di “casa” e perché no, quando non manca la presenza della famiglia Pecoraro (Tano e Francesco), uno scatto per immortalare la trasferta con un inserviente dell’impianto di Sant’Elena. La Salernitana, come già anticipato, non azzecca una. Ma perdere al 90’, diabolica conclusione di Maldonato, lascia davvero l’amaro in bocca. Il ritorno a casa, tra cena a tarda sera e nebbia in Pianura Padana, non è dei migliori.

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Un salto di 17 anni, la vittoria nel primo round ed il pensiero (azzardato) di ripercorrere quel cammino (nuovamente). La famiglia è d’accordo, le cose sono un po’ cambiate da quel 2 novembre, prenotazioni varie e domenica notte si parte. In treno. Ma con il cuore in quell’auto del 2002. Auspicando che almeno il risultato del campo possa essere diverso. Tra un ricordo e l’altro, il tempo trascorre sereno (fatta eccezione per un blocco di scheda, a porne rimedio un calabrese e mia moglie da casa, ed una sosta mordi e fuggi a Bologna).

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Alle 14.30, minuto più minuto meno, si “sbarca” a Venezia Santa Lucia. Lo scenario completamente modificato. Caldo afoso, l’amico Alfonso (trasferitosi per lavoro a Mestre) che ti raggiungere per uno spritz ed è pronto a staccare il biglietto (come si diceva un tempo) per non far mancare il proprio apporto alla Salernitana. C’è in ballo la sopravvivenza cadetta. Sul battello verso Sant’Elena è un susseguirsi di pacche sulle spalle, con i sostenitori locali, e di selfie. Vinca il migliore ci si sussurra, ovviamente la Salernitana. All’interno del “Penzo”, tribuna stampa in formato bonsai, ti capita di dover scrivere e assistere alla match a tu per tu con un gruppo di tifosi dei leoni.

Gruppo dai capelli bianchi, ma carico a dovere. Ci si scambia opinioni, anche durante i 90 minuti, e vien fuori che uno di questi, Roberto, è un salernitano doc: per amore trapiantato a Venezia da 50 anni. Il calcio è soprattutto questo. Pure quando, tra un rigore e l’altro, il respiro si blocca e gli occhi ti si gonfiano per la tensione. Bentivoglio è ipnotizzato da Micai, Coppolaro la getta in laguna e Di Tacchio fa il suo dovere. Da una delusione alla gioia, vale la pena attendere. Anche 17 anni.

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