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Fabrizio Gifuni al teatro “Verdi” di Salerno

Aldo Moro durante la prigionia parla, ricorda, scrive, risponde,
interroga, confessa, accusa, si congeda. Moltiplica le parole su
carta: scrive lettere, si rivolge ai familiari, agli amici, ai colleghi di
partito, ai rappresentanti delle istituzioni; annota brevi disposizioni
testamentarie. E insieme compone un lungo testo politico, storico,
personale – il cosiddetto memoriale – partendo dalle domande poste
dai suoi carcerieri.
Le lettere e il memoriale sono le ultime parole di Moro, l’insieme
delle carte scritte nei 55 giorni della sua prigionia: quelle ritrovate
o, meglio, quelle fino a noi pervenute. Un fiume di parole
inarrestabile che si cercò subito di arginare, silenziare, mistificare,
irridere. Moro non è Moro, veniva detto.
La stampa, in modo pressoché unanime, martellò l’opinione
pubblica sconfessando le sue parole, mentre Moro urlava dal
carcere il proprio sdegno per quest’ulteriore crudele tortura.
A distanza di quarant’anni il destino di queste carte non è molto
cambiato. Poche persone le hanno davvero lette, molti hanno scelto
di dimenticarle.
I corpi a cui non riusciamo a dare degna sepoltura tornano però
periodicamente a far sentire la propria voce. Le lettere e il
memoriale sono oggi due presenze fantasmatiche, il corpo di Moro
è lo spettro che ancora occupa il palcoscenico della nostra storia di​
ombre.
Dopo aver lavorato sui testi pubblici e privati di Carlo Emilio
Gadda e Pier Paolo Pasolini, in due spettacoli struggenti e feroci,
riannodando una lacerante antibiografia della nazione , Fabrizio
Gifuni attraverso un doloroso e ostinato lavoro di drammaturgia si
confronta con lo scritto più scabro e nudo della storia d’Italia.